Architettura del Quattrocento

Filippo Brunelleschi

  1. La cupola di Santa Maria del Fiore
  2. L'ospedale degli Innocenti
  3. La sagrestia vecchia di San Lorenzo
  4. Cappella Pazzi
  5. La chiesa di San Lorenzo
  6. La chiesa del Santo Spirito

Architettura del Cinquecento




  1. La zecca di Venezia
  2. La libreria Marciana
  3. La loggetta

Architettura del Seicento


  1. La chiesa dei Santi Martina e Luca
  2. La chiesa di Santa Maria della Pace
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Cortile del Belvedere (1504)


Il primo incarico ufficiale che gli viene dato da papa Giulio II è appunto la realizzazione del cortile del belvedere dove si nota chiaramente come Donato Bramante abbia completamente acquisito il linguaggio architettonico antico e come lo abbia saputo applicare, in questo caso, in maniera coerente rispetto a quella che era la tradizione del passato pur in certi casi declinando a modo suo quella che è la corretta esposizione del linguaggio rispetto classico. Essenzialmente il cortile del belvedere è uno spazio aperto stretto e lungo (300 X 100 m) che doveva collegare l'appartamento del Papa con una villa che si trovava più in alto rispetto al palazzo Vaticano che era la cosiddetta villa di Innocenzo VIII; il collegamento doveva avvenire secondo gli intenti di Donato Bramante, ma anche di Giulio II, attraverso la costruzione di edifici architettonici destinati all'attività di svago ma anche destinati all'attività culturale (infatti alcuni edifici nello stesso cortile dovevano contenere l'enorme mole di statue che i papi avevano collezionato durante gli anni), che nello stesso tempo doveva essere progettato come spazio verde (il livello più basso, che avrebbe occupato metà dell’area, doveva essere riservato ad ospitare tornei e spettacoli teatrali, i due livelli superiori invece dovevano fungere da aree verdi). 
Dal punto di vista architettonico il riferimento di Donato Bramante è l'ippodromo romano così com'era strutturato, proprio perché gli ippodromi romani avevano questa caratteristica di essere stretti e molto lunghi; essendo lo spazio in salita Donato Bramante aveva immaginato da una parte una serie di edifici a più piani (con biblioteche, appartamenti e varie stanze, che all'inizio dovevano essere articolati su due piani, poi venne aggiunto l'appartamento di Giulio II, sopra quelli del Borgia) mentre dall’altra perte doveva corrispondere un semplice muro (in quanto questa parte prospetta direttamente sulle mura, anche se originariamente si immaginavano i lati una serie di portici); per quanto riguarda il dislivello del terreno sono presenti due serie di scalinate e coronate. Attraverso tutta una serie di espedienti e utilizzando diverse quote Donato Bramante coniuga la funzione alla forma, nel senso che applica anche nelle soluzioni minime l'ordine architettonico in maniera compiuta. Anche in questo caso al piano terreno troviamo un arco che viene inquadrato dall'ordine (come nel piano terreno del cortile di Santa Maria della Pace caratteristico dell'architettura romana ed in particolare nel Colosseo), mentre sulle scalinate Donato Bramante si ingegna per creare anche delle soluzioni scenografiche, troviamo prima una scalinata normale che serve a superare il primo dislivello, mentre il secondo dislivello viene superato attraverso due cordonate in mezzo alle quali troviamo un grande nicchione affiancato da piccole nicchie; infine nell'ultimo livello l'architetto immagino un’esedra che doveva essere l'apice visivo e dove dovevano essere mostrate le collezioni di statue del Papa.
in questo progetto Bramante applica i principi della composizione prospettica ad un’opera architettonica, che investe sia il paesaggio che l’architettura, fondendo il tutto in una pittura; ma come detto il vero modello del cortile del Belvedere è l’ippodromo romano, il motivo può anche essere ricercato nell’ambito politico, in quanto con la costruzione del cortile la residenza del papa poteva rivaleggiare con le grandi domus dell’antichità.
Il cortile non ebbe mai la forma che aveva pensato Bramante, infatti per circa cinquant’anni il progetto avanzò come aveva pensato l’architetto, ma poi Sisto V decise di costruire un’ala trasversale per ospitare la biblioteca. Tuttavia l’edificio ebbe un notevole influsso sull’architettura civile successiva, sopratutto per quanto riguarda l’unione tra architettura e paesaggio
Infine è particolare la realizzazione di uno scalone che doveva mettere in contatto l’esedra con una zona verde sovrastante e Donato Bramante, anche qui coerente con il fatto che bisognasse mettere tutti gli ordini architettonici in una sequenza e volendo fermamente adottare questo sistema, si trova di fronte a una soluzione piuttosto particolare in quanto in questo caso abbiamo uno sviluppo elicoidale della trabeazione. Perciò Donato Bramante fa in modo che questa successione di ordini avvenga lungo i pianerottoli di accesso ai diversi livelli, ma nella sequenza non gli importa che coesistano diversi ordini, addirittura, poiché la trabeazione è un nastro che risale, l'architetto aggiunge una sorta di cuscinetti per arrivare a raggiungere la quota che fanno sì che il capitello della colonna non può che mai direttamente sulla trabeazione (anche questa una deroga).

Chiostro di Santa Maria della Pace (1500-1504)


Questa episodio, dopo il cortile del grande Palazzo Venezia, è il secondo nel quale la tecnica strutturale e le forme dell’antichità venivano impiegate in un progetto moderno; venne commissionato a Bramante da Oliviero Carafa, le strutture su cui l’architetto si trovò a lavorare erano quelle di un monastero domenicano (il cui pronao della chiesa verrà costruito da Pietro della Cortona), il compito di Bramante fu quello di razionalizzare gli spazi, per fare ciò l’architetto utilizza la campata come strumento ordinatore. Leon Battista Alberti nella sua teoria architettonica aveva stabilito (riprendendo Vitruvio e quindi riprendendo l’architettura antica) che in realtà i portici su archi dovessero insistere su pilastri perché secondo la tradizione greca il vero portico classico impostato su colonne deve avere una trabeazione rettilinea, quindi se vogliamo usare la serie delle arcate dobbiamo usare i pilastri (come facevano i romani). In questo caso Donato Bramante applica due concezioni differenti di portico, al piano terreno un portico costituito da archi impostati su pilastri, mentre al piano superiore invece abbiamo l’adozione di un portico all’antica, ossia costituito da una trabeazione rettilinea che si imposta su colonne.
In genere gli ordini architettonici (dorico, ionico e corinzio) venivano utilizzati in base alla divinità cui l’edificio era dedicato, in particolare l’ordine dorico veniva utilizzato per le divinità maschili, mentre lo ionico per le divinità femminili l’ordine corinzio invece era adottato per quegli edifici, civili o religiosi, non particolarmente importanti.
In questo caso l’adozione dell’ordine ionico era considerata da Bramante come quella fondamentale, l’edificio doveva quindi avere un ordine ionico, ma nello stesso tempo, proprio perché Bramante voleva conoscere l’antico (nel senso che voleva studiarne le diverse combinazioni), decide di applicare all’interno del suo chiostro ben quattro distinti ordini architettonici (dorico, ionico, composito e corinzio).
Rispetto però alla volontà di adottare questi quattro ordino architettonici Donato Bramante decide che l’ordine ionico sia quello che prevalga sui quattro, perché è quello che esprime la dedicazione del tempio alla Madonna, quindi si inventa tutta una serie di soluzioni architettoniche che fanno si che nonostante ci sia la compresenza di quattro ordini effettivamente su tutti prevale l’ordine ionico.
Innanzitutto decide di non collocare l’ingresso al cortile assialmente rispetto all’entrata, perché avendo esattamente in prospettiva centrale nell’ingresso al cortile, colui che entrava aveva una percezione dello spazio indifferenziata, invece entrando di lato avrebbe avuto modo di vedere un primo ordine architettonico congruamente l’ordine dorico, perciò posizione l’ordine dorico come cornice d’imposta degli archi che costituiscono le campate del piano terreno; in pratica trasforma, dal punto di vista degli elementi architettonici la cornice su cui si imposta l’arco che va a formare le campate del piano terreno, lo trasforma in echino, per cui il profilo della cornice assume il profilo dell’echino di un capitello dorico (quindi quando ci si avvicina si ha la percezione che la cornice sia un capitello dorico, perché la cornice presenta tutti gli elementi che caratterizzano l’ordine dorico).
A questi pilastri al piano terreno Bramante applica delle lesene ioniche (su cui si imposta la trabeazione) che sono quelle di ordine gigante e che si posano su degli alti plinti (citazione dell’architettura tardo antica romana); quindi abbiamo una sorta di ordine ionico che subordina l’ordine dorico che poggia direttamente per terra (il capitello dell’ordine dorico viene quindi “tagliato” dalla lesena).
Nell’antichità, quando si costruivano i portici, chiaramente se erano portici che si affiancavano ad un muro continuo, si tendeva a disegnare sul muro continui una lesena in corrispondenza della colonna (come se fosse una proiezione); in questo caso, poiché in questa posizione non è importante denunciare la presenza dell’ordine dorico, Bramante riprende proporzionalmente le linee che hanno definito il capitello dei pilastri e li ritrasforma in cornice lungo il muro, per cui lungo il muro continuo la cornice d’imposta degli archi ritorna ad essere cornice d’imposta degli archi (perde quegli elementi architettonici che, differentemente nei pilastri, gli individuano come dei capitelli dorici).
La soluzione angolare è una soluzione che abbiamo già visto con Brunelleschi, ma in questo caso serve a Donato Bramante per un motivo; siccome tutti i pilastri hanno la stessa dimensione, anche il pilastro angolare ha la stessa dimensione di quelli adiacenti, per cui arrivati all’angolo le due lesene affiancate non ci stanno, perciò l’architetto allude semplicemente alla presenza delle lesene disegnando il ricciolo terminale del capitello ionico e riproducendo l’angolo di congiunzione tra due ipotetiche basi della lesena.
Facendo così l’angolo viene a perdere la sua importanza di nodo architettonico fondamentale, per cui nella concezione di questo angolo che non è dato dall’affiancamento di due pilastri ma bensì dalla loro fusione; questa viene ancora considerata una debolezza architettonica da parte di Donato Bramante, perché differentemente da Brunelleschi non riesce ad esprimere quello che avrebbe voluto in quanto l’angolo perde la sua importanza perché gerarchicamente messo allo stesso livello degli altri pilastri (infatti hanno la stessa dimensione); differentemente nel cortile di palazzo ducale di Urbino all’angolo si assiste ad una giustapposizione di due pilastri, con una sezione ad L (questa sarà la soluzione angolare della maggior parte dei cortili cinquecenteschi).
Per quanto riguarda l’ordine superiore Donato Bramante non fa altro che proiettare la lesena al piano superiore, utilizzando però dei pilastri compositi (infatti sono formati da una sovrapposizione di più elementi, in questo caso lesene) ed inserisce tra un pilastro e l’altro una colonna con ordine corinzio (anche se il fatto che la colonna cada in falso non è corretto).
Un’altra deroga che l’architetto applica si riscontra per il fatto che se noi immaginiamo la lesena come una proiezione della colonna sul muro, allora ci rendiamo conto che l’altezza del capitello dell’ordine ionico è ridotta rispetto all’altezza del capitello della lesena soprastante.
Per cui gerarchicamente troviamo il pilastro del piano terra, la lesena del piano terra, la colonna ed infine l’altra lesena del pilastro superiore, anche se l’ordine che prevale è quello ionico.
Il confronto con il chiostro di Sant’Ambrogio a Milano mostra un progressivo avvicinamento alle forme antiche (il compimento di questo processo sarebbe stato il tempietto), che rappresenta anche uno stadio precedente nello sviluppo del tema del raddoppio delle campate al piano superiore (come anche in Santa Maria presso San Satiro).

Tribuna di Santa Maria delle Grazie (1492)


La Tribuna di Santa Maria delle Grazie nasce come cappella gentilizia e riprende dalla Sagrestia Vecchia di Brunelleschi.
Tale architettura fa parte di un complesso monastico ed è costituita da: coro, abside semicircolare, stanza quadrata centrale e cappelle semicircolari; seguendo l’esempio di Brunelleschia anche Bramante esalta l’importanza delle strutture (infatti sono evidenziate le lesene angolari) viene concepita a prospettiva centrale ma è ulteriormente prolungata dalla presenza del vano quadrato (scarsella). Chi si trova al centro dell’ambiente prova sia la sensazione di spazio centrale chiuso sia anche di uno spazio longitudinale. La zona centrale è chiusa e allo stesso tempo è aperta in due direzioni.
L’aula centrale è quadrata e sui due lati laterali ci sono due absidi, sul lato opposto l’entrata c’è una scarsella con abside e a lato una sagrestia. L’aula centrale e la scarsella cono coperte con cupole coperte all’esterno, quindi non visibili, anche se sono presenti delle bucature che permettono l’entrata della luce, sottolineandone l’importanza. Esternamente l’intervento viene coperto da un secondo anello esterno. Nello spazio tra la cupola e la copertura esterna ricava dei corridoi. Infine il tamburo della chiesa ha un suo piccolo ordine architettonico, compaiono bucature alternate a lesene con decorazioni a candelabre.

Santa Maria presso San Satiro (1482)


La chiesa nasce come annessione al sancello a pianta centrale, ovvero la piccola chiesa paleocristiana di San Satiro e venne commissionata dalla famiglia Sforza, in particolare Galeozzo Maria Sforza. Si tratta in pratica di una grande rettangolo con entrata presso l’asse stradale, diviso in ambienti affiancati e voltati a botte. Durante la costruzione il progetto cambia; la cappella viene trasformata in transetto di una chiesa più grande.
La famiglia sforza decide di costruire una cappella per le loro spoglie.
L’intervento di Bramante consiste nel progettare la cappella che occupa un sedime acquistato dalla famiglia Sforza. Dal punto di vista impiantistico ricorda la Cappella Pazzi di Brunelleschi; quindi una cupola centrale e una serie di volte a botte con asse parallelo alla cupola per contrastarne le spinte (3 volte a botte per lato). Il sacello rimane collegato lungo un lato corto. Il primo progetto era solo la cappella. Altra citazione di Brunelleschi è la presenza di nicchie. Il progetto iniziale fu modificato fino a creare una vera e propria chiesa. Teorie indicano che il primo progetto potrebbe anche non essere suo, ma quello finale certamente lo è.
Nel 1482 si occupa della costruzione dell’intera chiesa che si organizzò nella zona retrostante.
Il progetto iniziale della cappella diviene il transetto della chiesa, che ha 3 navate con quella centrale larga come il transetto. Nello spazio di crociera ci va una cupola, la quale è semisferica e sugli oculi dei pennacchi compaiono le figure dei santi, mentre il resto è decorato a lacunari e rosette. Però, ha la concezione spaziale uguale a quelle Brunelleschiane: nello spazio del presbiterio serviva uno spazio maggiore. Qui interviene la sua formazione di architetto prospettico: in poco più di un metro e mezzo si dà l’illusione di spazi più profondi. La prospettiva non è quindi solamente un modo di organizzare lo spazio; è evidente il riferimento al Pantheon, attraverso i lacunari e le rosette, che contribuiscono anche all’illusione.
Bramante finge che dietro nel presbiterio vi sia anche un abside. Anche la cupola allude a una spazialità più grande. Bramante si occupò del prospetto della zona absidale.

Donato Bramante


Assume il cognome dal nonno materno, proviene dalla zona di Urbino, in questo contesto lavorano personaggi di rilievo quali Luciano Laurana (che lavora al palazzo ducale di Federico da Montefeltro), Francesco di Giorgio Martini (senese, autore di un trattato di architettura), vi è anche una scuola di pittori prospettici, tra i quali Piero della Francesca e lo stesso Bramante.
L’architettura di Bramante si può definire pittorica in quanto nelle sua architetture sono fondamentali la luce e i colori; le prime notizie di suoi lavori riconducono al contesto lombardo (in particolare a Bergamo, allora territorio veneziano), dove progetta il palazzo del podestà.
Con la caduta di Ludovico il Moro Bramante si reca a Roma, rimane dubbia la sua presenza a Firenze, dove avrebbe potuto ammirare le opere di Brunelleschi. Nei primi lavori di Bramante in campo architettonico è evidente la sua mentalità da pittore prospettico; la sua attenzione si rivolge in particolare all’antichità classica (tardo-antica del periodo tra il IV-VI secolo, corrispondente all’epoca paleocristiana).

Opere analizzate:
  1. Santa Maria presso San Satiro
  2. Tribuna di Santa Maria delle Grazie
  3. Chiostro di Santa Maria della Pace
  4. Cortile del Belvedere
  5. Tempietto di San Pietro in Montorio
  6. Palazzo di Andrea Caprini in Borgo

La chiesa dei Santi Martina e Luca




Il cardinale Francesco Barberini ordinò nel 1635 la ricostruzione della chiesa di San Luca (dove, nel frattempo, erano state anche trovate le spoglie i Santa Martina), il completamento dell’edificio avvenne nel 1650. Il Cortona scelse un disegno a croce greca con terminazioni ad abside, con l’asse longitudinale leggermente più lungo di quello trasversale (queste differenza rimane tuttavia impossibile da notare al visitatore). la prima sensazione che si ha entrando in questo ambiente è la completa rottura delle superfici di muro continuo, ma questa non è solo una sistemazione estetica (fatta per sedurre ed abbagliare l’occhio), il muro ha qui una notevole plasticità (non è solo una divisione tra interno ed esterno), ripartito in tre piani alternati: il piano interno (quello più vicino al visitatore) si ripresenta nelle estremità segmentate dei quattro bracci (cioè nei punti importanti dove sono collocati gli altari e l’occhio richiede una chiara e netta linea di confine), il piano più lontano ricompare nei settori adiacenti, dietro le colonne divisorie, il piano intermedio invece è fissato nei settori vicini all’incrocio. 
 Tutt’intorno pilastri e colonne sono elementi omogenei dello stesso ordine ionico, è anche caratteristico di questo periodo di Cortona (a differenza di Bernini) il rifiuto dell’uso del colore, la chiesa infatti si presenta interamente bianca.
Nonostante la nuova interpretazione plastico-dinamica della antica pianta a croce greca, lo stile di Cortona è profondamente radicato nella tradizione toscana, come si nota dal motivo delle colonne isolate che proteggono le pareti rientrate nei bracci della croce, un’elementi di origine romana ma che veda la sua applicazione nel Battistero di Firenze.
Un’analisi delle decorazioni della chiesa fornisce notevoli prove delle radici fiorentine del Cortona, la scultura sembra infatti esclusa e non rappresenta mai una parte importante della sua architettura, il suo stile di decorazione venne quasi sicuramente elaborato prima nella pittura e poi trasferito in architettura.
La facciata dei santi Martina e Luca rappresenta un’altra rottura con la tradizione, il corpo principale della facciata è a due piani e leggermente incurvato, pilone fortemente aggettanti alle estremità (fronteggiati da doppi pilastri) sembrano aver schiacciato il muro che si trova fra di essi, tanto che sembra che la curvatura del muro stesso sia una conseguenza della compressione. Altra peculiarità è il fatto che gli ordini non hanno funzione di struttura e non dividono il muro curvato in settori nettamente distinti (nella fila inferiore le colonne sembrano esser state incastrate nella massa molle del muro, mentre al piano superiore pilastri squadrati si ergono sul muro in chiaro rilievo), questo sistema si inverte in corrispondenza del portale d’accesso (nella fila superiore colonne strutturali sono sprofondate nel muro, mentre nella fila inferiore forme rigide simili a pilastri sovrastano la porta).

La chiesa di Santa Maria della Pace


In quest’ultima chiesa (nella quale si vede una progressiva esclusione degli elementi manieristici ed un ritorno alla semplicità, grandiosità e compattezza romana) il suo intervento è in pratica la realizzazione del pronao e della sistemazione della piazza antistante. Grazie al suo intervento il Cortona rende la chiesa un vero e proprio palcoscenico, mentre la piazza e le casi circostanti sono l’autitorio (per questo le vie di accesso alla piazza escludono tutte una visuale diretta alla chiesa). La pianta è senza soluzione di continuità, dove si cercano di creare degli spazi che siano il più unitari possibili, al concorrere alla definizione di questi spazi intervengono le altre arti; la luce anche qui è un’elemento centrale; l’utilizzo del linguaggio architettonico antico è episodico per cui si estrapola da qualche citazione antica qualche particolare e lo si applica ad architetture recenti.
Nella chiesa di Santa Maria della Pace il portico ritorna all’antica (con trabeazione continua che poggia su colonne) cambia la forma, non più rettilineo ma semicircolare, che accoglie l’area circostante e nello stesso tempo separa l’edificio dal contesto urbano. Attraverso la demolizione di alcuni edifici antistanti Pietro della Cortona crea anche una sorta di scena per la sua nuova architettura che, in pratica consiste nell’individuazione del portico di separazione; anche qui l’utilizzo dell’antico è un semplice linguaggio architettonico da cui vengono tratti dei frammenti, non esistono comunque punti di discontinuità, elemento chiave dell’architettura barocca (si utilizzano delle forme in cui ci possano essere dei punti di rottura ma attraverso l’uso di scultura, pittura e stucchi si da continuità completa agli elementi).
il piano superiore convesso della facciata, saldamente ancorato ai lati da pilastri aggettanti (come nella chiesa dei santi Martina e Luca), ma questa zona mediana rappresenta solo una zona intermedia fra il portico semicircolare (arditamente sporgente) e le grandi ali concave che circondano la facciata.
L’elemento terminale della facciata è un frontone triangolare che ne contiene uno segmentato.

L'oratorio dei Filippini


La congregazione di San Filippo indi un concorso nel 1637 per la costruzione di quello che in pratica era un monastero, manco a dirlo il concorso venne vinto da Borromini. Per quanto la facciata rammenti quella di una chiesa, le sue file di finestra da casa di abitazione sembrano contraddire questa impressione; la parte principale della facciata consiste di cinque settori, rigorosamente divisi da pilastri sistemati secondo una pianta concava, ma il settore centrale della fila inferiore è curvo verso l’esterno, mentre nella parte superiore si apre una nicchia di notevole dimensione. Al culmine della facciata si trova un grande frontone, che, per la prima volta, combina un movimento curvilineo ad uno angolare, questo permette di conferire una diversa importanza alle diverse parti che costituiscono l’edificio senza necessariamente dividerle (naturalmente quella centrale è la più importante).
L’interno dell’oratorio è articolato da semicolonne sulla parete dell’altare e un complicato ritmo di pilastri sulla altre tre pareti. Per quanto riguarda i cortili i palazzi capitolini di Michelangelo diedero evidentemente lo spunto all’uso dell’ordine di pilastri giganti

Il restauro di San Giovanni in Laterano


La ricostruzione di San Giovanni era diventata necessaria in quanto l’antica basilica cristiana era in pericolo di crollare, il lavoro di Borromini iniziò nel 1646 e si concluse nel 1649; il papa voleva fortemente che la chiesa fosse quanto più possibile conservata nella sua struttura originale e per questo Borromini incassò due colonne consecutive della vecchia chiesa in un’ampio pilastro, contornando ogni pilastro con un colossale ordine di pilastri per tutta l’altezza della navata e collocando e collocando una nicchia tabernacolo in ogni pilastro, dove in origine c’era l’apertura fra le due colonne. L’alternarsi di archi e pilastri aperti era un ritmo base dai tempi di Bramante, solo che in questo caso la struttura continua attraverso gli angoli, trasformando così la navata in uno spazio chiuso.

Sant'Ivo alla Sapienza



Subito dopo la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane a Borromini venne assegnata anche la costruzione della chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza nel 1642. La chiesa doveva sorgere all’estremità est del lungo cortile porticato di Giacomo della porta; per la pianta ancora una volta Borromini torno alla geometria di base del triangolo equilatero, ma questa volta scelse due triangoli che si compenetrano, formano un regolare esagono a stella. Le rientranze semicircolari che sostituiscono gli angoli di un triangolo sono determinati da circonferenze con raggio pari a metà del lato dell’esagono, mentre le estremità convesse dell’altro triangolo risultano da circonferenze con lo stesso raggio e i centri nei punti del triangolo; così rientranze di forma concava e rientranze con pareti oblique ed estremità convesse si alternano e si fronteggiano a vicenda attraverso lo spazio della chiesa.
La forma della chiesa è molto particolare e non è facile trovare dei precedenti storici, questo è dovuto al fatto che le piante di questo tipo non possono mai essere uniformi (perché i lati uguali non si fronteggiano) e qui sta un’elemento di inquietudine e di conflitto. Tuttavia questi problemi vennero abilmente evitati da Borromini, il metodo fu rivoluzionario: invece di creare, secondo la tradizione, uno spazio esagonale centrale e spazi satelliti minori messi negli angoli del triangolo, egli racchiuse il perimetro in una sequenza continua di pilastri giganteschi, che costringono lo spettatore a prendere atto dell’omogeneità dell’intera area della chiesa. Questa sensazione è fortemente aumentata dal sovrastante cornicione nettamente delineato che rivela la forma a stella del piano base in tutta la sua chiarezza.
A differenza di San Carlo alle quattro fontane la cupola copre il corpo della chiesa senza un’elemento strutturale di transizione, continua in pratica la forma a stella della pianta, poiché ogni segmento si apre alla base in una vasta finestra (nessuna delle costruzioni di questo periodo presenta una cupola di questo tipo); inoltre le linee verticali dei pilastri proseguono nelle modanature dorate della cupola che ripetono ed accentuano la sottostante divisione tripartita dei vani. Via via che si sale in altezza i contrasti tra le varie parti si affievoliscono e vengono ad arrestarsi sotto la lanterna nella pura dimensione del circolo.
All’esterno la cupola è costituita da quattro parti differenti: prima un’alto tamburo esagonale, sopra una piramide a gradoni divisa da costoloni simili a contrafforti, troviamo quindi la lanterna (con doppie colonne e rientranze concave tra di esse) ed infine si erge la spirale monolitica e scultoria.
Sant’Ivo deve essere considerato il capolavoro di Borromini, dove il suo stile raggiunge il culmine e dove egli azionò tutti i registri di cui disponeva.

San Carlo alle Quattro Fontane



Nel 1634 gli venne commissionata la costruzione del monastero di San Carlo alle Quattro Fontane, Borromini costruì prima di tutto il dormitorio, il refettorio e i chiostri, dimostrando di di essere un maestro nella razionalizzazione degli spazi. Nel 1638 fu posta la prima pietra della vera e propria chiesa  (che venne consacrata nel 1646); è di fondamentale importanza rendersi conto che nella progettazione del monastero Borromini basò i suoi disegni su unità geometriche, rinnegando il principio classico di di progettare in termini di moduli, cioè in termini di moltiplicazione e divisione di una unità aritmetica di base (rinunciando quindi alla posizione centrale dell’architettura antropomorfica).
Nella progettazione di San Carlo, Borromini diede straordinaria importanza all’elemento scultorio delle colonne, esse sono raggruppate per quattro con più larghi intervalli sull’asse longitudinale e trasversale. Per l’inserimento della cupola su una base di questo tipo, l’architetto posizionò un’area di transizione con pennacchi che gli permettono di disegnare una cupola ovale di forma curvilinea continua; i quattro intercolunni sotto i pennacchi adempiscono quindi la funzione dei pilastri negli incroci delle piante a croce greca. In questa chiesa Borromini conciliò tre differenti tipo di struttura: la zona più bassa ondulata (la cui origine si ritrova nelle piante tardo antiche, come il salone e la cupola della piazza d’Oro di Villa Adriana), la zona intermedia dei pennacchi (che deriva dalla pianta a croce greca) e la cupola ovale (che secondo la tradizione dovrebbe ergersi su una struttura della stessa forma).
La facciata della chiesa fu l’ultimo lavoro di Borromini; il sistema di articolazione, che combina un’ordine piccolo ed un’ordine gigantesco, deriva dai palazzi capitolini di Michelangelo e dalla facciata di San Pietro (dove Borromini aveva iniziato a lavorare come scalpellino), ma egli utilizzò il sistema michelangiolesco in maniera differente. Ripetendo i due registri di importanza quasi uguale, egli operò contro lo spirito per qui il sistema era stato creato, cioè di unificare la facciata in tutta la sua altezza, infatti la fila superiore contiene una quasi completa inversione di quella inferiore. La facciata consiste di tre settori; sotto, i due settori esterni concavi e il settore centrale convesso sono legati insieme dalla robusta, continua e ondulata trabeazione; sopra, i tre settori sono concavi e la trabeazione si svolge in tre segmenti separati. Inoltre il medaglione ovale sorretto da angeli e sovrastato dall’elemento a forma di cipolla annulla l’effetto del cornicione come barriera orizzontale. Sotto, le colonnine dei settori esterni incorniciano un muro con piccole finestre ovali e servono come supporto per nicchie con statue; sopra, le colonnine incorniciano nicchie e sostengono pannelli di muro conclusi; in altre parole, le parti chiuse e aperte sono state invertite.
Nel caso di San Carlo alle Quattro Fontane si tratta di una architettura che non ha soluzione di continuità (non vi è frattura nella definizione dello spazio, non ci sono angoli che interrompono la lettura dello spazio o la luce), i punti critici in cui una linea si trasforma da concava a convessa vengo risolti con l’interposizione delle colonne, inoltre il trattamento a stucco della cupola serve a decorare ed ad esasperare ulteriormente la spazialità dell’ambiente.
Nell’Oratorio dei Filippini il prospetto non richiama un’edilizia religiosa bensì è caratteristico dell’edilizia residenziale dell’epoca (che qui il linguaggio architettonico prescinde da quello che è il discorso di funzione).

Sant'Andra al Quirinale



La chiesa di Sant’Andrea al Quirinale altro non è che lo specchio fedele di quello detto prima che governano il modo di fare architettura in questo periodo; si tratta di una chiesa di piccole dimensioni ma di grande importanza non solo per le loro intrinseche qualità ma anche per lo straordinario influsso che determinarono. La chiesa venne commissionata dal cardinale Camillo Pamphili per i novizzi dell’ordine dei Gesuiti, la costruzione iniziò nel 1658 e ci volle molto tempo per poterla vedere completa, almeno fino al 1670, in quanto riccamente decorata.
Il carattere del sito indusse l’architetto a scegliere la pianta ovale, con l’asse trasversale più lungo di quello principale tra entrata ed altare; questa forma di per se non aveva niente di originale, ma quello che differenzia la chiesa del Bernini da tutte le altre è il fatto i pilastri si trovano ad entrambe le estremità dell’asse trasversale (non sono quindi presenti delle cappelle come negli esempi precedenti), come conseguenza abbiamo che lo spazio risulta completamente chiuso, la nuova soluzione quindi costringe il visitatore a seguire la serie ininterrotta di pilastri (sovrastati da un massiccio anello di trabeazione) finché non incontra l’edicola a colonne di fronte al recesso dell’altare, al di sopra del quale si trova la statua di Sant’Andrea, al quale convergono tutte le linee della chiesa.
Colore e luce collaborano all’effetto d’insieme, in basso, dove si trova il visitatore, la chiesa splende di prezioso marmo multicolore, in alto invece, a livello della cupola, i colori sono bianco ed oro. Lo spazio ovale è uniformemente illuminato da finestre fra i costoloni tagliate in profondità tra i cassettoni della cupola; tutte le cappelle invece sono considerevolmente più scure, anche se è presente una sottile differenza: quelle grandi a fianco dell’asse trasversale hanno una luce diffusa, mentre le quattro sussidiarie nelle assi diagonali sono sprofondate nell’oscurità, tale da enfatizzare l’illuminazione dell’altare.
 Per quanto riguarda l’esterno possiamo notare che la cupola è racchiusa in un involucro cilindrico le cui volute (che fungono da contrafforti) poggiano sopra il robusto anello che racchiude le cappelle, il cui cornicione prosegue sotto i giganteschi pilastri corinzi della facciata, per affiorare in corrispondenza del portale d’ingresso, creando un portico semicircolare, sostenuto da colonne ioniche. il motivo dell’edicola che incornicia il portico è ripreso all’interno, sulla stessa asse, dall’edicola che incornicia la nicchia dell’altare, ma mentre all’esterno la composizione attrae il visitatore, all’interno lo esclude.
Si tratta comunque di spazi che dal punto di vista costruttivo non hanno soluzione di continuità, sono spazi in cui si cerca di creare delle atmosfere continuità completa, nel senso che non si trovano all’interno di questi spazi (nonostante l’alternanza di forme concave e convesse) contrapposizione tra le diverse forme, si cerca di rendere lo spazio completamente unitario; laddove ci sono dei punti nei quali convergono elementi architettonici diversi di solito si cerca di rendere pittoricamente degli spazi chiusi ed integri, per cui è difficile distinguere l’elemento di decorazione da quello costruttivo, qui l’elemento architettonico antico viene estrapolato ed inserito in un contesto estraneo.